Progetto di liberazione totale


Quando gli sfruttati, superando la lotta per la soddisfazione dei bisogni immediati, riescono a costruire un progetto di liberazione totale, la loro opposizione si fa antagonismo e il malcontento sovversione.

Se e quando tale progetto viene sconfitto, al periodo di sovversione segue quello di restaurazione, in cui l’apparato del potere è impegnato, in ogni sua articolazione, a definire le nuove regole della pace sociale.

Restaurazione significa: da una parte distruzione delle organizzazioni dell’antagonismo; dall’altra integrazione, nei meccanismi legali di opposizione, dei settori più possibilisti del movimento- da una parte quindi, criminalizzazione delle aspirazioni più radicali; dall’altra assimilazione delle richieste più compatibili con l’assetto del sistema.

Che negli anni ‘70 non si sia vissuto un periodo pre-insurrezionale, pensiamo e speriamo sia chiaro a tutti, ma, e questo per noi è altrettanto chiaro, allora la volontà di trasformazione sociale delle nuove forze emergenti era poco compatibile con i meccanismi istituzionali di lotta politica.

Di quel movimento, tanto vario e vasto socialmente quanto eterogeneo organizzativamente (e questo va sottolineato), non sono rimasti che pochi fantasmi in parlamento, alcune migliaia di militanti detenuti che stanno pagando la loro coerenza, ed un insieme di speranze insoddisfatte, che sono la cattiva coscienza di chi ha scelto di spegnere la propria rabbia nel riflusso intimista e pessimista.

Di tutto quello che è nato nel corso degli anni ‘70 a nostro parere, soprattutto quello che viene chiamato "movimento del ‘77" è stato portatore di contenuti realmente esplosivi per il sistema; questo sia per la pratica che ha sviluppato, sia per l’iniziale rifiuto di ogni schematismo ideologico e di ogni tentazione autoritaria che ha espresso.

Paradossalmente, se possiamo parlare del ‘68 e dei suoi strascichi come di un virus per il corpo della sinistra "storica" (PCI-PSI) sorto e guarito, e poi usato come anticorpo dalla sinistra stessa, il movimento del ‘77 può essere visto come un cancro inguaribile e devastante per quella che viene definita "nuova sinistra"- tanto nuova che del sistema aveva rifiutato tutto, meno quello che ne è un pilastro fondamentale: il logoro gioco della politica e della delega parlamentare.

Il movimento del ‘77 sorse dal bisogno di superare la sterilità organizzativa e la vuotezza di proposte della sinistra extra-parlamentare, dalla necessità di generalizzare lo scontro sociale per una prospettiva reale di trasformazione. Ciò che caratterizzò quel movimento già dal suo nascere fù il netto rifiuto di ogni strutturazione partitica, quindi l’impossibilità di inserirlo nella logica del sistema: più che un fiume in piena, quella che nel ‘77 investì lo Stato fù una moltitudine di rivoli (Indiani Metropolitani, Circoli Giovanili, Femministe, Autonomi), ben distinti fra loro, ma volti tutti in un’unica direzione.

La stessa eterogeneità del movimento del ‘77 la ritroviamo nell’autonomia, dove fù nel contempo punto di forza e causa di sconfitta: la miriade di collettivi, che sorgevano spontaneamente e si collegavano orizzontalmente, sviluppavano una aggregazione sociale estremamente elastica, diffusa, non arginabile, ma, quando la controffensiva statale ne colpì i settori più strutturati organizzativamente, non seppe elaborare nè praticare una comune ed organica risposta.

"Rosso" e "Metropoli" , che oggi si vorrebbero far credere come momenti egemoni dell’autonomia, in realtà non furono che generici punti di riferimento, e la loro aspirazione a sovrapporsi ad essa èer dirigerne le lotte rimase tale.

I vari Negri, Scalzone, Piperno, non sono state che voci isolate, la cui eco, più che tra i compagni, si risentiva sulle pagine dei giornali: l’insieme dei compagni non voleva intermediari tra sè e il potere.

Oggi possiamo vedere che il movimento del ‘77 non ha lasciato appendici istituzionali, al contrario di quello del ‘68 che ostacolò la radicalizzazione delle lotte creando una moltitudine di partitini a caccia di voti.

Questo fenomeno è importante per capire l’accanimento dello Stato e del PCI nella repressione e nella persecuzione del movimento del ‘77 e dell’autonomia.

Nessuno è più pericoloso per chi detiene, gestisce e desidera il potere, di chi si prefigge e pratica la distruzione di ogni potere.

Per il PCI (e per ogni P.C.), è storicamente provato che ogni volta che alla sua sininstra cresce e si sviluppa un movimento antiautoritario, la risposta è sempre la stessa: pestaggi in piazza, calunnie, delazioni, e questo vale anche per i nuovi stalinisti del MLS (oggi PdUP-PSI).

Oggi, dopo che lo spettacolo delle retate di massa e delle confessioni-fiume può dirsi finito, nelle aule dei tribunali si recita l’ultimo atto della rappresentazione, il cui finale è ancora tutto da definire, senza dimenticare che tutto è già stato detto il 7 aprile 1979.

Per noi anarchici, comunque vada, rimangono validi antichi principi: non riconosciamo a questo, come ad altri tipi di Stato, il diritto di giudicare chicchessia, nè crediamo all’utilità sociale del sistema carcerario, di cui vogliamo la distruzione con la conseguente liberazione di tutti i detenuti.

Pur non riconoscendo le fittizie schematizzazioni del sistema (irriducibili, dissociati, pentiti al 50%, delatori, ecc.), vogliamo sviluppare le nostre considerazioni proprio seguendo queste definizioni, per semplificare il discorso.

Le O.C.C. (Organizzazioni Comuniste Combattenti)hanno rappresentato una fuga in avanti di una minoranza rispetto all’insieme del movimento antagonista. A nostro parere, i tempi di sviluppo ed il livello di scontro devono essere determinati e condivisi da ogni componente del movimento stesso; la costituzione di un gruppo di super-militanti impegnati ad assumere la guida del movimento e ad imporre la propria linea e i propri tempi allo stesso, non può che risultare un pericoloso punto debole sul quale, efficacemente, si può innestare la reazione dello Stato. In questo senso le OCC sono responsabili dell’innalzamento del livello di repressione, che il movimento nel suo insieme non era ancora in grado di sopportare.

Infine condanniamo, laddove sia possibile diffondere una sovversione di massa, la costituzione di avanguardie armate che, appunto in quanto avanguardie, sono estranee alla coscienza dei più; tenendo anche presente che le avanguardie marxiste sono eterne, non dissolvibili.

Nonostante il fatto che, a nostro parere, ogni uomo o gruppo politico vada giudicato per quello che fa e non per quello che teorizza, l’abisso che ci divide dalla pratica lotta-armatista diviene incolmabile al momento del confronto con l’ideologia delle OCC, che quella pratica dovrebbe giustificare.

Come le loro azioni trasudano di stalinismo anche in carcere, nei confronti degli altri rivoluzionari, così la loro teoria è impregnata dell’autoritarismo tipico di ogni ortodossia marxista.

La storia ha largamente provato come la cosiddetta "dittatura del proletariato", che dovrebbe garantire e rafforzare il processo di liberazione, altro non sia che un semplice cambio della guardia, all’insegna del "tutto cambi perchè tutto rimanga lo stesso": nuove classi, nuovi padroni, e lo sfruttato comunque sfruttato, anche dopo la rivoluzione.

Nessuna forma di marxismo, nè nuovo nè vecchio, nè tradizionale nè innovato, può portare ad una effettiva rivoluzione dei rapporti sociali, in quanto queste diverse teorie differiscono soltanto nella definizione del prototipo di Stato cui aspirano, post-rivoluzione o post-riforma, senza rilevare la funzione oppressiva propria di ogni organizzazione statale.

Come anarchici non possiamo condividere le azioni di chi pensa di combattere lo Stato assumendo comportamenti che da sempre caratterizzano chi opprime. Le OCC hanno ricreato al proprio interno delle contro-istituzioni distinguibili dalle istituzioni statali solamente per il dio cui si ispirano.

La rivoluzione, a nostro parere, deve passare sul cadavere dello Stato: deve distruggere non solo i rapporti economici ma anche la struttura burocratica e sociale del dominio.

Chi processa un giudice riconosce implicitamente allo Stato il diritto di giudicare i rivoluzionari, riconoscendo e facendo propria una sua istituzione.

Oltre a questo, la nostra morale rivoluzionaria, se così possiamo chiamarla, ci impone di ridefinire continuamente le nostre certezze e i nostri compiti, e di verificare la coerenza di ogni nostra azione con quel metodo di trasformazione rivoluzionaria che pensiamo sia l’unico che possa sovvertire realmente il sistema capitalistico.

"Piuttosto che innalzare anche una sola ghigliottina, preferiamo rimanere oppressi"- Questa convinzione, che di Malatesta testimonia la limpidezza rivoluzionaria, oggi è più che mai nostra, e non per dogmatismo, ma per coerenza metodologica, tra quello che oggi siamo e quello che vorremmo essere.

Ciò perchè, per noi anarchici, fini e mezzi sono intimamente legati, e da mezzi autoritari non può nascere che una società autoritaria.

Prima di iniziare una critica al comportsmento processuale degli imputati del 7 aprile, teniamo a precisare che riconosciamo ad ogni sovversivo detenuto il diritto di decidere autonomamente il proprio atteggiamento nei confronti delle istituzioni, quando questo però non comporti il coinvolgimento di altri detenuti, quando non metta in discussione altri percorsi politici al di là del diretto interessato.

Come anarchici siamo sempre stati molto diffidenti nei confronti dei dirigenti rivoluzionari, specie di quelli vestiti di rosso, perchè credono che il potere derivi loro dal popolo, e sono disposti a reprimere duramente qualunque dissenso, pur di difendere questa loro convinzione. Per quanto riguarda questi leaders di Autonomia, il nostro giudizio è ancora più duro per due semplici motivi: già prima del 7 aprile, lo Stato aveva garantito loro il ruolo di primattori della rivolta, colmando di potere spettacolare l’oggettiva mancanza di un loro potere reale sul movimento; ed ora più che mai al centro dello spettacolo, costoro sono tanto calati nella parte che, confondendo realtà e rappresentazione, pensano di essere rappresentativi di quel movimento, o di ciò che ne rimane, che oggi nemmeno li considera compagni.

Detto questo, la nostra critica a Negri e soci viene spontanea: questi signori, più che mai sicuri del proprio potere decisionale, si sentono in diritto di sentenziare su anni di lotta, di chiudere periodi storici e di aprirne altri, ribaltando la propria posizione nei confronti del potere, con la pretesa che questo valga per tutti i compagni detenuti e per quelli ancora liberi. Per capire di quanto sia mutato l’atteggiamento di costoro nei confronti della lotta di classe, basta leggere i loro ultimi documenti fatti uscire dal carcere.

Innanzitutto, viene data per scontata la morte del movimento antagonista degli anni ‘70, e questo non in ragione della repressione o delle incapacità del movimento stesso, bensì considerando effettivamente mutata la realtà sociale e definitivamente risolte quelle contraddizioni che provocarono la lotta.

In sostanza, non solo si decreta la sconfitta delle aspirazioni rivoluzionarie passate, ma si vorrebbe svuotare di contenuto la pratica antagonista, contro tutti i possibili movimenti sovversivi a venire.

I teorici dell’impossibile e della conquista del cielo, si fanno carico del più bieco realismo riformista, sempre attento a ricondurre all’interno della dinamica istituzionale ogni opposizione intransigente.

Data per scontata l’inutilità di ogni atteggiamento intransigente, essi possono tranquillamente prospettare un rapporto molto più elastico con il sistema: l’ostilità lascia il posto alla contrattazione, l’impegno per l’abolizione delle istituzioni a quello per una loro modernizzazione. Si propone il reinserimento dei detenuti nel sistema perchè possano prendere attivamente parte al suo rinnovamento, senza più metterne in discussione le strutture portanti, ed in cambio a questo si chiede un atto di depenalizzazione, una modernizzazione del diritto e del sistema carcerario.

Al di là di quello che ancora si potrebbe dire in riferimento al loro essere garantiti in quanto teste pensanti- care al sistema come chiunque pensi e non faccia- e al loro tentativo di contrabbandare una proposta che pecca di personalismo per una lucida analisi politica, pensiamo che sia utile sottolineare una curiosa contraddizione in cui costoro sono caduti, nella foga della propria marcia indietro: loro, che vorrebbero uscire dalla bipolarizzazione pentiti-intransigenti, ne ripropongono una altrettanto artificiosa tra chi accetta il loro progetto e chi invece rimane fedele al proprio passato.

In sostanza, Negri & C. accusano chi ancora non riconosce a nessun tribunale il diritto di giudicare, nè a quelli dello Stato nè a quelli del popolo, di passività, di silenzio colpevole ed associano questo comportamento a quello dei fautori della lotta armata.

Il loro programma è volto ad una progressiva razionalizzazione del sistema carcerario e della società nel suo complesso.

I "rivoluzionari" di una volta (semmai lo sono stati), aspirano oggi a diventare i gestori di una politica di trasformazione che impermeabilizzi ulteriormente il sistema da ogni possibile conato di sovversione.

E, per quanto prevenzione è sinonimo di repressione (a nostro parere tracciare un confine è ben arduo), possiamo ipotizzare che la loro prossima parte, dopo quella di dirigenti "rivoluzionari" possa essere quella di gendarmi della rivoluzione.

Parallelamente al processo del 7 aprile, se ne stanno svolgendo e se ne svolgeranno altri che, a differenza di quello, vedono imputati centinaia di compagni che non sono ideologi, nè mai hanno voluto esserlo.

Compagni che non hanno fatto politica per vezzo ideologico, ma per un bisogno di liberazione che partiva direttamente dal loro quotidiano.

Di questi compagni, che non sono nè potrebbero essere garantiti dai radical-chic della sinistra intellettuale, rivendichiamo la liberazione immediata

A dimostrazione (per chi ancora non ne fosse convinto) dell’estrema elasticità della libertà possibile all’interno di uno Stato, libertà che varia al variare dei rapporti di forza e il cui massimo grado è sempre la libertà di non disobbedire, oggi vediamo che, dopo che il bastone della repressione ha colpito chi aveva osato troppo, il gioco ricomincia con la proverbiale carota, che nel nostro caso è rappresentata dal neo-garantismo dei fautori dello stato di diritto; infatti , ora che il movimento è stato sconfitto, ci si può permettere di essere garantisti.

In ogni caso, nessun progetto di normalizzazione potrà portarealla liberazione di questi compagni: il loro stesso anonimato testimonia di quanto siano stati parte integrante della sovversione, perseguitati e arrestati come chiunque chieda ragione del proprio sfruttamento e, in quanto tali, pronti a riprendere il proprio posto una volta liberi.

Il processo di Milanoalle varie formazioni di autonomia, è esemplare per quanto riguarda la parzialità dell’istruttoria (tutta basata su delazioni sapientemente orchestrate, prese sempre come oro colato e senza remore a riguardo della correttezza procedurale) e la volontà di criminalizzazione.

Innanzitutto vogliamo sottolineare l’eterogeneità delle imputazioni (circa 800) per cui è stato istruito tale processo, che vienen chiamato "Processo Tobagi"; questa denominazione non rispecchia soltanto la necessità di soettacolarizzazione della stampa borghese ma, soprattutto, il tentativo di piegare e unificare l’insieme delle accuse sotto quella principale per l’assassinio Tobagi. Sfruttando tale imputazione clamorosa, i giudici di Milano stanno cercando di imporre una gradualità delle imputazioni che vada, appunto dall’assassinio al sabotaggio delle macchinette convalidatricidell’ATM: usando un’unica chiave di lettura, si vorrebbero collegare tutti questi diversi fatti ed omologarli sotto l’etichetta di "azioni terroristiche".

In questo processo si cerca di porre sullo stesso piano Marco Barbone, terrorista e delatore,e quegli

sfruttati che hanno lottato per la loro libertà.

In sostanza, si cerca di identificare terrorismo con lotta di classe.

Questo tentativo secondo noi non deve passare e può essere fermato: la legalità o meno della lotta degli sfruttati varia al variare dei rapporti di forza tra movimento antagonista e Stato, ed appunto per questo una risposta decisa può ribaltare la situazione, ottenendo la liberazione dei compagni detenuti ed una maggiore libertà di azione per tutti gli altri.

Gli espropri, i picchetti, le "spazzolate", le autoriduzioni, sono parte del patrimonio storico degli sfruttati, che si sono sempre garantiti l’imounità lottando e rafforzandosi: fino a non molti anni fa, la lotta per la festività del 1° Maggio era duramente repressa; ancora negli anni ‘50, essere comunisti in fabbrica comportava il licenziamento o l’essere confinati in reparti ghetto.

In questi giorni, i mezzi di informazione di stato danno grande risalto alla repressione delle manifestazioni in Polonia per il 1° Maggio, sostenendo la loro legittimità: provate ad immaginare la loro reazione e quella delle forze dell’ordine il 2 Giugno, se una manifestazione di centomila antimilitaristi volesse raggiungere il centro di Roma durante la parata militare...

L’obiettivo, per noi anarchici, rimane l’amnistia totale e incondizionata, cioè la distruzione del sistema carcerario.

Ci sembra comunque importante lottare per ottenere un miglioramentodelle condizioni di vita all’interno delle carceri. L’articolo 90, le carceri speciali, oggi sono un’aberrazione dell’apparato repressivo dello Stato. Una lotta finalizzata unicamente ad una loro eliminazione, a nostro parere, ridarebbe nuovo fiato al sistema e la coerenza con i suoi "principi" che oggi ha perso; bisogna invece impegnarsi per un miglioramento delle condizioni di carcerazione, senza scordare che solo l’abolizione totale delle carceri può farci uscire dalla barbarie. Bisogna superare la contrattazione, la rivendicazione, radicalizzando le lotte: solo così potranno ottenere risultati concreti. Così pure la lotta a favore dell’amnistia per i detenuti politici: l’amnistia deve essere imposta, o meglio, potrà essere solo imposta; soltanto così anche chi è colpevole per i codici borghesi potrà uscire di galera. Solo così, non scendendo a patti, questi obiettivi intermedi non contraddiranno quello finale: la rivoluzione sociale.

Solo l’intransigenza e la coerenza rivoluzionaria possono portare alla reale modificazione, anche solo parziale, dell’esistente.

Ribadiamo inoltre che lottare oggi contro il pesante silenzio che avvolge i processi che migliaia di detenuti politici stanno subendo e subiranno, mettendo l’accento sulla loro natura strettamente politica, significa difendere non solo parte della storia degli sfruttati, ma anche la possibilità che questa storia continui e si sviluppi positivamente.

Difendere gli sepropri, i picchetti, gli scioperi, le manifestazioni di ieri per poterne fare domani:

e la lotta che proponiamo non è quella dei cavilli giuridici, ma quella di massa, che oppone il proprio diritto stabilito sulle piazze a quello polveroso dei codici.